Una storia iniziata il 24 Luglio 2008 e tuttora in corso. Vogliamo viverla insieme a voi.
Barbara, Elena & Paolo

domenica 6 aprile 2014

PICCOLO GRANDE AMICO

L’altra sera papà è rientrato dal lavoro e si è accorto che sul suo cellulare c’era una chiamata persa. Qualcuno lo aveva cercato mentre stava guidando e non aveva sentito la suoneria. “Chi potrà mai essere…?”, si domandò grattandosi la zucca. La mamma? No, perché altrimenti gli avrebbe detto qualcosa appena entrato dalla porta. I colleghi di lavoro? Nemmeno, perché in quei giorni non c’era nessuna pratica urgente in ufficio. Forse era qualche amico che voleva salutarlo. Probabile, ma, allora, perché sul cellulare non appariva il nome ma un semplice numero? Magari era qualcuno che aveva sbagliato.
“Beh, basta richiamare e scopriremo subito chi è!”, disse papà armeggiando con il cellulare.
Il telefono squillò per un bel pezzo e quando, finalmente, dall’altro capo qualcuno rispose, papà riconobbe la voce e i suoi occhi si riempirono di lacrime.
Dall’altro capo, il veterinario gli aveva appena detto che tu non c’eri più.
Sapevamo che le tue condizioni erano critiche e che in questi ultimi giorni erano peggiorate, ma speravamo che il veterinario, che tanto aveva fatto in tutti questi anni, riuscisse a salvarti. Speravamo che, dopo essere scampato alla filaria, dopo aver vissuto per anni con l’asma che non ti dava tregua, riuscissi a venirne fuori anche questa volta. E invece, questa volta, il male ha vinto.
Proprio adesso, che avevo cominciato a conoscerti e a non avere più paura di te. Proprio adesso, che avevo imparato a farti quelle carezze sulla testa che ti piacevano tanto.
Perché tu eri un micione tanto buono ed affettuoso ma molto fifone. Quando mi avvicinavo ti ritraevi e, qualche volta, mi hai pure soffiato contro facendomi spaventare.
E mamma e papà mi dicevano sempre di non avere paura di te e che soffiavi solo perché avevi paura. Mi dicevano che eri buono e che non avresti fatto del male nemmeno ad una mosca.
Poi, anche tu hai imparato a conoscermi e, piano piano, ti lasciavi accarezzare tranquillamente dalle mie manine piccole.
Papà chiude la telefonata e prende il fazzoletto. Anche la mamma si asciuga le lacrime, seduta sul divano.
Perché anche per loro non è facile pensare che Tommy, il piccolo grande amico a quattro zampe, che ha condiviso la loro vita per quasi dodici anni, non ci sia più. Allora prendono l’album delle fotografie e davanti ai miei occhi comincia a scorrere un film.
Prima vedo un batuffoletto grigio, grande come un pugno, che riesce appena a stare ritto sulle zampine, poi un gattino monello che ficca il naso dappertutto e salta sempre di qua e di là e poi se ne va a dormire acciambellato in un cestino e, infine, un grosso micione che, sornione, se la spassa perennemente spaparanzato sul divano, sul tavolo o tra le braccia del malcapitato di turno.
“Doveva essere proprio un bel birbante, Tommy!”, dico e mamma e papà mi sorridono con il cuore pieno di tristezza e mi raccontano di quando, durante il weekend, dormivi in casa con loro e, di notte, salivi nelle camere perché volevi saltare sui letti, oppure di quando, all’ora di pranzo, ti facevi trovare in anticipo seduto alla tavola già apparecchiata e quando, sotto le feste di Natale, ti arrampicavi fin sul Presepio e facevi la statuina.
Con Nonna Carla, poi, hai creato un legame particolare: di notte dormivi con lei e ti sdraiavi sul suo cuscino, sopra la sua testa! E se la nonna voleva leggere, aveva sempre qualche problema perché tu gli agitavi la tua grossa coda davanti agli occhi e non la lasciavi mai in pace.
Altre volte, invece, dormivi a fianco a lei e se, per caso, si girava, miagolavi perché ti disturbava il sonno e allora te ne andavi a dormire sulla lavatrice o sulla cassettiera.
Poi, che fosse apparecchiato o meno, avevi sempre il tuo posto fisso per sdraiarti sul tavolo della cucina, appoggiato al muro, proprio dove passano i tubi dell’acqua calda, e quando vedevi la nonna prendere il telefono le saltavi in grembo e stavi lì a farti accarezzare per tutto il tempo della telefonata.
Sei stato di conforto anche per Nonno Gigi, nei suoi ultimi tempi, quando si muoveva sempre di meno: salivi sul divano, accanto alla sua poltrona, e te ne stavi lì sdraiato, vicino a lui a ricevere qualche carezza o qualche complimento, biascicato con voce sempre più malferma.
Papà e Nonna hanno chiesto al veterinario se potevano portarti a casa per farti riposare per sempre in giardino, appena fuori dalle nostre case, dove avevi tanto corso e dove ti sdraiavi all’ombra di qualche pianta.
In verità la legge non lo consentirebbe però il veterinario è stato bravo (sapete, è stato anche intervistato da Edoardo Stoppa, sì, proprio quello di Striscia la Notizia, perché aveva mandato in prigione un suo collega cattivo che uccideva gli animali invece di curarli) e ha chiuso entrambi gli occhi.
Così non finirai in un tetro inceneritore ma tornerai di nuovo a casa e resterai sempre con noi, piccolo grande amico, perché sarai nella terra, nelle foto e nel nostro cuore.
E a me piace pensare che tu, ora, sia anche lassù, con Nonno Gigi, a giocare tra le nuvole.
Perché un amico buono ed affettuoso, che tanto sollievo ha dato a Nonna Carla, soprattutto dopo che Nonno Gigi se ne era andato, non può finire tra le fiamme, né dell’inceneritore, né dell’inferno.
E quando sarò a Galliavola e correrò in giardino ti cercherò con lo sguardo e mi sembrerà strano non vederti più. Però saprò che tu sarai sempre lì con me, sulla finestra, sul muretto, sul tavolo o nascosto tra i fiori, ad osservarmi con i soliti occhi semichiusi ma capaci di cogliere ogni più piccolo movimento.
E se per caso vedrò due nuvole che anche loro si rincorrono nel cielo, saprò che siete tu e Nonno Gigi che fate la gara per chi si accaparra la poltrona per primo.
Allora vi manderò un grosso bacio e griderò: “Monelli, non litigate, fate un po’ per uno…..!”.

mercoledì 8 gennaio 2014

CIAO NONNO GIGI

Sei andato via una mattina di Dicembre, quando fa freddo e la campagna è spoglia e triste.
La nebbia avvolge ogni cosa, le giornate sono corte e, nei campi, stoppie marcite attendono la liberazione di un aratro pietoso.
Ma come per la campagna che, in primavera, si risveglia dal letargo invernale e rinasce a nuova vita, anche tu ti sei risvegliato e sei rinato lassù, in alto, dove nessuno soffre e il tempo è sempre bello.
Noi, invece, siamo rimasti qui a ricordarti, mentre una lacrima ci solca il viso e cade subito per terra senza fare rumore.
Anch’io, che sono piccola, mi ricordo che mi hai sempre voluto tanto bene, sin da quando sono arrivata. Mi hai amata tanto e dicevi sempre che ero bella e intelligente anche se non ero sangue del tuo sangue e venivo da un paese lontano lontano.
Perché, a te, queste cose, in fondo, non hanno mai interessato granché: anche se avevo gli occhi a mandorla mi prendevi per mano, con quelle tue manone grosse, ma tanto abili nell’abbracciarmi ed accarezzarmi, e mi portavi nell’orto dove, senza farci scoprire dalla nonna, coglievamo un bel pomodorino rosso e….ce lo mangiavamo! E dopo, a tavola, chiudevi un occhio se non stavo seduta composta, perché da te l’unica regola da seguire era che potevo fare quello che volevo, e intanto mi allungavi un pezzo di focaccia o una bella fetta di salame.
E poi fingevi di fare il monello quando giocavo alla maestra e tu eri in classe con tutti i miei pupazzi e io dovevo sempre sgridarti e riportarti all’ordine!
E quando, con papà e nonna, andavamo in giro in macchina, mi sedevo sempre dietro di te e ti facevo gli scherzi e il solletico dietro le orecchie e tu ti divertivi come un matto, oppure quando venivo a trovarti indossando la maglia del Milan, tu facevi le smorfie ma, immediatamente dopo, ti mettevi a ridere e mi davi una carezza.
Sei andato via piano piano, come una candela che lentamente si spegne perché non trova più la sua cera. E la tua malattia non era neanche una di quelle bruttissime che si leggono sui giornali.
Però era subdola e tenace e ha lavorato in silenzio: anno dopo anno, ha aggiunto sempre un nuovo problema e ha scavato il tuo fisico forte finché non hai potuto fare altro che arrenderti.
Eppure papà mi racconta che non è sempre stato così, nossignore! Papà mi dice che ci sono stati giorni passati, felici e sereni, quando tu stavi bene e non avevi problemi. In un fine settimana, riuscivi a vangare tutto l’orto e poi avevi pure il tempo di andare a pescare; e poi, dal Lunedì lavoravi in banca ed eri sempre vestito bene e tutti ti ammiravano e ti rispettavano perché eri bravo e competente, severo quanto bastava, ma pronto ad aiutare chiunque avesse ne bisogno. E quando tornavi a casa, o nel tempo libero, portavi a spasso papà e zia Nicoletta e ti divertivi a giocare con loro.
Mentre ti guardava lentamente spegnerti, papà si domandava dove era andato a finire quell’omone buono e generoso che gli aveva insegnato ad andare in bicicletta, a fare il bagno nei fossi e che gli comprava sempre i giocattoli più belli; voleva sapere che fine aveva fatto quel musicista dilettante che suonava la chitarra ad orecchio e gli aveva insegnato a muovere le dita sulle tastiere, suonando “Blue Moon” a quattro mani e ripensava, con infinita nostalgia, alla galoppata di Berti a Monaco di Baviera, al salto dalla poltrona al divano che ne derivò, e alle tue braccia forti che lo prendevano al volo e lo abbracciavano.
E adesso, invece, quello forte ha dovuto essere lui: prima per aiutarti a fare i movimenti più elementari, quelli che tu non riuscivi a fare più, poi nel vederti inchiodato ad un letto, pieno di tubi, mentre i dottori scuotevano la testa e, infine, chiuso dentro quattro assi di legno circondato dai fiori.
Pronto per il tuo ultimo viaggio, il tuo viso era sereno e sembrava quasi che sorridesse.
Non avevi più quel volto triste e sofferente ma avevi un’espressione radiosa e di pace e papà non ha avuto paura di restare insieme a te e vederti così immobile e pallido: non si deve mai avere paura del proprio padre, neanche quando si è piccoli e lui si arrabbia perché ne combiniamo sempre una.
Per questo motivo io mamma e papà abbiamo scelto questa foto: è molto recente e io mi ricordo bene che quella mattina c’era il sole e tu dovevi rifare la carta d’identità. Siamo partiti con la tua macchina e, naturalmente, io ero seduta dietro a scherzare con te, mentre la nonna cercava invano di farmi stare seduta. Poi papà ha dovuto spingerti di peso lungo le scale perché il fotografo stava al piano di sopra e tu ormai camminavi sempre meno.
L’abbiamo scelta perché ci mostra un viso sì sofferente ma che, nello stesso tempo, si sforza di sorridere e di essere contento, proprio come quando mi vedevi arrivare ogni Venerdì sera e saltavi quasi fuori dalla tua poltrona e ti mettevi a gridare: “Chi c’è?”.
Perché, che tu stessi bene o male, avevi sempre la forza di regalarmi un sorriso e di non farmi impressionare più di tanto nel vederti ridotto peggio di un rottame.
E mi piace pensare che la mia presenza ti aiutasse a dimenticare, per un attimo, le tue sofferenze:
quelle gambe che ti avevano sorretto nel lavoro nell’orto, e quegli occhi che così tanto ti avevano aiutato a riconoscere un buon posto per gettare la lenza, quelle braccia che avevano fatto in tempo a stringermi e che ora non funzionavano più.

Ora, lassù, non sei più un rottame ma sei diventato un angelo, un po’ più grosso degli altri, se vogliamo, ma sempre splendente: proteggici e, soprattutto, aiutaci a strappare le erbe cattive che mettono le radici nel nostro cuore e fare in modo che non ricrescano più, proprio come facevi tu nel tuo orto, che era così pulito che ci si poteva persino specchiare.
Natale è appena passato e il tuo posto a tavola è rimasto vuoto: mi sarebbe piaciuto tanto, sai,  che il caro vecchietto, con la barba bianca e il vestito rosso, non mi avesse portato dei giochi, perché ne ho già tanti. Avrei tanto voluto che, come regalo, tu fossi tornato con noi.
Ma lo sapevo già che questo desiderio sarebbe stato impossibile da esaudire.
Perché sei andato via e noi dobbiamo rimanere qui. E’ così che va. E’ così che è stata scritta.
Per noi la vita deve andare avanti: la campagna si risveglierà di nuovo, le giornate si allungheranno e gli orti torneranno ad essere rigogliosi. Io imparerò ad andare in bicicletta senza rotelle e poi andrò a scuola e, chissà, forse un giorno diventerò una dottoressa!
Tutto tornerà come prima, papà riuscirà a perdere qualche chilo, mamma imparerà lo Spagnolo e, forse, la tua Inter si guadagnerà finalmente un posto in Champions League.
Ecco, il calcio, appunto.
Papà e zia Nicoletta ti prendevano sempre in giro perché, quando parlavi della tua Inter, non azzeccavi mai un pronostico.
Ti prendevano in giro e ti dicevano che eri un gufo.
Però il gufo è un animale bello e maestoso ed è anche simbolo di saggezza.
E, allora, sai cosa faccio?
D’ora in avanti mi metterò ad osservare bene tutti i gufi che mi capiterà di incontrare e se per caso ne scorgerò uno con una leggera sfumatura nerazzurra sulle piume, dallo sguardo un po’ austero ma infinitamente buono, saprò di averti ritrovato.