Una storia iniziata il 24 Luglio 2008 e tuttora in corso. Vogliamo viverla insieme a voi.
Barbara, Elena & Paolo

mercoledì 8 gennaio 2014

CIAO NONNO GIGI

Sei andato via una mattina di Dicembre, quando fa freddo e la campagna è spoglia e triste.
La nebbia avvolge ogni cosa, le giornate sono corte e, nei campi, stoppie marcite attendono la liberazione di un aratro pietoso.
Ma come per la campagna che, in primavera, si risveglia dal letargo invernale e rinasce a nuova vita, anche tu ti sei risvegliato e sei rinato lassù, in alto, dove nessuno soffre e il tempo è sempre bello.
Noi, invece, siamo rimasti qui a ricordarti, mentre una lacrima ci solca il viso e cade subito per terra senza fare rumore.
Anch’io, che sono piccola, mi ricordo che mi hai sempre voluto tanto bene, sin da quando sono arrivata. Mi hai amata tanto e dicevi sempre che ero bella e intelligente anche se non ero sangue del tuo sangue e venivo da un paese lontano lontano.
Perché, a te, queste cose, in fondo, non hanno mai interessato granché: anche se avevo gli occhi a mandorla mi prendevi per mano, con quelle tue manone grosse, ma tanto abili nell’abbracciarmi ed accarezzarmi, e mi portavi nell’orto dove, senza farci scoprire dalla nonna, coglievamo un bel pomodorino rosso e….ce lo mangiavamo! E dopo, a tavola, chiudevi un occhio se non stavo seduta composta, perché da te l’unica regola da seguire era che potevo fare quello che volevo, e intanto mi allungavi un pezzo di focaccia o una bella fetta di salame.
E poi fingevi di fare il monello quando giocavo alla maestra e tu eri in classe con tutti i miei pupazzi e io dovevo sempre sgridarti e riportarti all’ordine!
E quando, con papà e nonna, andavamo in giro in macchina, mi sedevo sempre dietro di te e ti facevo gli scherzi e il solletico dietro le orecchie e tu ti divertivi come un matto, oppure quando venivo a trovarti indossando la maglia del Milan, tu facevi le smorfie ma, immediatamente dopo, ti mettevi a ridere e mi davi una carezza.
Sei andato via piano piano, come una candela che lentamente si spegne perché non trova più la sua cera. E la tua malattia non era neanche una di quelle bruttissime che si leggono sui giornali.
Però era subdola e tenace e ha lavorato in silenzio: anno dopo anno, ha aggiunto sempre un nuovo problema e ha scavato il tuo fisico forte finché non hai potuto fare altro che arrenderti.
Eppure papà mi racconta che non è sempre stato così, nossignore! Papà mi dice che ci sono stati giorni passati, felici e sereni, quando tu stavi bene e non avevi problemi. In un fine settimana, riuscivi a vangare tutto l’orto e poi avevi pure il tempo di andare a pescare; e poi, dal Lunedì lavoravi in banca ed eri sempre vestito bene e tutti ti ammiravano e ti rispettavano perché eri bravo e competente, severo quanto bastava, ma pronto ad aiutare chiunque avesse ne bisogno. E quando tornavi a casa, o nel tempo libero, portavi a spasso papà e zia Nicoletta e ti divertivi a giocare con loro.
Mentre ti guardava lentamente spegnerti, papà si domandava dove era andato a finire quell’omone buono e generoso che gli aveva insegnato ad andare in bicicletta, a fare il bagno nei fossi e che gli comprava sempre i giocattoli più belli; voleva sapere che fine aveva fatto quel musicista dilettante che suonava la chitarra ad orecchio e gli aveva insegnato a muovere le dita sulle tastiere, suonando “Blue Moon” a quattro mani e ripensava, con infinita nostalgia, alla galoppata di Berti a Monaco di Baviera, al salto dalla poltrona al divano che ne derivò, e alle tue braccia forti che lo prendevano al volo e lo abbracciavano.
E adesso, invece, quello forte ha dovuto essere lui: prima per aiutarti a fare i movimenti più elementari, quelli che tu non riuscivi a fare più, poi nel vederti inchiodato ad un letto, pieno di tubi, mentre i dottori scuotevano la testa e, infine, chiuso dentro quattro assi di legno circondato dai fiori.
Pronto per il tuo ultimo viaggio, il tuo viso era sereno e sembrava quasi che sorridesse.
Non avevi più quel volto triste e sofferente ma avevi un’espressione radiosa e di pace e papà non ha avuto paura di restare insieme a te e vederti così immobile e pallido: non si deve mai avere paura del proprio padre, neanche quando si è piccoli e lui si arrabbia perché ne combiniamo sempre una.
Per questo motivo io mamma e papà abbiamo scelto questa foto: è molto recente e io mi ricordo bene che quella mattina c’era il sole e tu dovevi rifare la carta d’identità. Siamo partiti con la tua macchina e, naturalmente, io ero seduta dietro a scherzare con te, mentre la nonna cercava invano di farmi stare seduta. Poi papà ha dovuto spingerti di peso lungo le scale perché il fotografo stava al piano di sopra e tu ormai camminavi sempre meno.
L’abbiamo scelta perché ci mostra un viso sì sofferente ma che, nello stesso tempo, si sforza di sorridere e di essere contento, proprio come quando mi vedevi arrivare ogni Venerdì sera e saltavi quasi fuori dalla tua poltrona e ti mettevi a gridare: “Chi c’è?”.
Perché, che tu stessi bene o male, avevi sempre la forza di regalarmi un sorriso e di non farmi impressionare più di tanto nel vederti ridotto peggio di un rottame.
E mi piace pensare che la mia presenza ti aiutasse a dimenticare, per un attimo, le tue sofferenze:
quelle gambe che ti avevano sorretto nel lavoro nell’orto, e quegli occhi che così tanto ti avevano aiutato a riconoscere un buon posto per gettare la lenza, quelle braccia che avevano fatto in tempo a stringermi e che ora non funzionavano più.

Ora, lassù, non sei più un rottame ma sei diventato un angelo, un po’ più grosso degli altri, se vogliamo, ma sempre splendente: proteggici e, soprattutto, aiutaci a strappare le erbe cattive che mettono le radici nel nostro cuore e fare in modo che non ricrescano più, proprio come facevi tu nel tuo orto, che era così pulito che ci si poteva persino specchiare.
Natale è appena passato e il tuo posto a tavola è rimasto vuoto: mi sarebbe piaciuto tanto, sai,  che il caro vecchietto, con la barba bianca e il vestito rosso, non mi avesse portato dei giochi, perché ne ho già tanti. Avrei tanto voluto che, come regalo, tu fossi tornato con noi.
Ma lo sapevo già che questo desiderio sarebbe stato impossibile da esaudire.
Perché sei andato via e noi dobbiamo rimanere qui. E’ così che va. E’ così che è stata scritta.
Per noi la vita deve andare avanti: la campagna si risveglierà di nuovo, le giornate si allungheranno e gli orti torneranno ad essere rigogliosi. Io imparerò ad andare in bicicletta senza rotelle e poi andrò a scuola e, chissà, forse un giorno diventerò una dottoressa!
Tutto tornerà come prima, papà riuscirà a perdere qualche chilo, mamma imparerà lo Spagnolo e, forse, la tua Inter si guadagnerà finalmente un posto in Champions League.
Ecco, il calcio, appunto.
Papà e zia Nicoletta ti prendevano sempre in giro perché, quando parlavi della tua Inter, non azzeccavi mai un pronostico.
Ti prendevano in giro e ti dicevano che eri un gufo.
Però il gufo è un animale bello e maestoso ed è anche simbolo di saggezza.
E, allora, sai cosa faccio?
D’ora in avanti mi metterò ad osservare bene tutti i gufi che mi capiterà di incontrare e se per caso ne scorgerò uno con una leggera sfumatura nerazzurra sulle piume, dallo sguardo un po’ austero ma infinitamente buono, saprò di averti ritrovato.